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mechicena
il 21.12.2007



memory padre/father
meno male
memories figli/sons
Miracolo!



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Ma si, perch� no? � che rileggevo...

Mi è rimbombata nella testa per anni ed anni questa poesia. E’ di Pier Paolo Pasolini e si intitola “Le ceneri di Gramsci”. Ritmica, ossessiva, ma cauta, quasi stupita che il mio cervello, seguendo un lento bioritmo, ne reiterasse i suoni. Ora batte sulle tempie e nel cuore come un tamburo.
Ed ho capito perché.
Nella vita sono sempre andato avanti così; tagli improvvisi, irreparabili allontanamenti, abbandoni. Ed ancora più infiammati ed appassionati ritorni.
Non so perché mi sia andata così.
L’unica risposta che ho trovato è quella che da sempre mi da mio padre: - tu sei fatto col “piulot”. Il “piulot” è una specie di piccola ascia con la quale si spacca la legna: taglia, squarcia, ma non da forma. Sfronda.

“Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,
tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare
tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita”.

Mi ero quasi dimenticato tutto quello che facevo prima, in questi ultimi anni, ma non quella poesia, che pure aveva poco a che fare con me e con ciò che ero.
“E la memoria mi è volata via come un cappello in un giorno di vento”. E’ una frase, credo, di Tonino Guerra, ed a me deve essere andata così.
Ma questa mattina Franz ed io siamo andati da Sergio. Ritorniamo un po’ timorosi, da lui: più o meno 20 anni fa ha ospitato nella sua home-gallery una nostra piccola mostra che abbiamo intitolato “Musicanica domestica”: vasi per piante con tamburo ad acqua, campanello portatile (così non c’è bisogno che suoni forte per sentirlo), piccoli oggetti sonanti d’uso quotidiano, reinventati, ripensati nel loro aspetto acustico.
Costruiti malino, però. Un po’ troppo rozzi e quasi posticci.
Franz ha sempre sempre pensato che per Sergio fosse stato un imbarazzante insuccesso, io non mi ricordavo più come lo avessi giudicato (chissà perché ricordavo solo la cena con due ragazze dove avevo preparato il viteltonné, poi però non ero andato a letto con nessuna e mi era dispiaciuto). Martinez, che allora era ancora con noi, aveva evitato ogni giudizio. Aveva una sorprendente capacità di rivoltare gli insuccessi in successi, Martinez, e spesso convinceva anche gli altri, oltre che se stesso.

“... e insieme, ossesso,
quel vibrare d’incudini, in sordina,
soffocato a accorante – dal dimesso

rione – ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso... povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in vetrine

dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranito

è il mio giorno: mentre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accade

di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale”

C’è tutto in questa poesia. C’è passione; c’è lo “sterminato strumento a percussione del sesso è della luce: così avvezza ne è l’Italia che non ne trema, come morta nella sua vita”, c’è la sensualità; c’è il senso di repulsione verso i bigotti; c’è l’attrazione quasi carnale per il povero, rozzo - ma non semplice, piuttosto essenziale -, c’è la beffa del non aver saputo o potuto fare; c’è la contraddizione.
Eravamo così, noi. Nel nostro dirci “artigiani” piuttosto che “artisti”, nella nostra intenzione di essere semplici e rigorosi, quanto alteri nel presentarsi.
Ma.
Ma.
Gioiosi.
In fondo.
E vivi.

* * *

- Ma lo sai quella volta che si tornava da Dorno... avevamo lavorato così tanto, io, che pure in seguito ho fatto lavori duri, non mi ricordo di aver mai faticato così tanto...
Chiacchieriamo, Franz, Sergio ed io. C’è una sorta di intimità timorosa, ma nessuna voglia di celebrare.
- ...ero così stanco, ma così stanco, che mentre guidavo vedevo un coniglio che mi correva a fianco in autostrada -, continuo.
- Ma guarda che è successo anche a me -, dice Franz, - ma lo vedevi sempre?
- Si a destra.
- No il mio era intermittente, lo vedevo a momenti.
- Era perché andavi più piano e lui ti sorpassava -, chiude Sergio.
Ridiamo.
Questa era la nostra vita, le nostre cose nascevano così, a causa di una affinità annusata, di una gentile necessità di manifestarsi: - come d’un popolo di animali, nel cui arcano orgasmo non ci sia altra passione che per l’operare quotidiano.

A Dorno ci aveva invitato un assessore alla cultura del comune per la festa del paese in piazza. Dovevamo in pratica sostituire i fuochi d’artificio, o qualcosa del genere.
Pensa che ti ripensa ci inventiamo una macchina enorme: ci sono due piazzettine attigue, in una, la più piccola, quella della chiesa ci mettiamo la banda che suona, ma lì in pubblico non ci va, costruiamo delle specie di sordine per gli strumenti a fiato che infiliamo, per l’appunto, negli strumenti ed altri “trasduttori”, con questi convogliamo i suoni in tubi che portano il suono nella piazza più grande, dove la gente, avvicinando l’orecchio ai tubi, ascolta suoni provenienti da una fonte sonora invisibile.
Ci sembra una radio realizzata con mezzi meccanici. Ci ha sempre divertito, stimolato, rifare le cose che già esistono con una tecnologia vetusta. Spiazza, crea un modo di fruizione del suono, un evento, inusuale; crea un paesaggio sonoro da visitare con curiosità.
Soprattutto, ma non ce lo diciamo subito, non abbiamo la minima idea di cosa succederà ai suoni di una banda di paese, trasportati per qualche centinaio di metri dentro a un groviglio di tubi, da questi modificati e miscelati.
Non abbiamo nemmeno la certezza che tutto funzioni. Mi sembra di essere Anthony Quinn in Zorba il greco, i grovigli di tubi e le navi (deriva da lì l’idea, quando il capitano grida nell’intrefonico – un tubo che trasporta gli ordini dove necessario – “Macchine pari avanti piano”, e la nave salpa) mi hanno sempre affascinato istintivamente.
Ci muove, con tutta probabilità, una primordiale curiosità; perché noi per primi vogliamo sentire cosa salta fuori. E’ una occasione rara quella di costruire una macchina enorme, inusitata,
E costruirla soprattutto, per noi stessi, prima di essere condivisa.
Questo solo pensiero, già avrebbe dovuto farci presagire il proseguimento dell’avventura, e, permettetemi di dirlo, sebbene si tratti per certo di una operazione artistica, il nostro operare è ben differente da quello di un artista. Somiglia di più a quello degli operai delle officine di Testaccio dette da Pasolini.
Iniziamo.
Martinez si occupa della partitura e fa qualche viaggio a Dorno per le prove con la banda. Franz ed io sospettiamo che il numero delle prove sia esagerato quando veniamo a sapere che – sembra – in uno di questi viaggi abbia imbroccato la farmacista del paese.
Ma non c’era mai da fidarsi troppo dei racconti di Martinez, perciò soprassediamo.
Per la revisione della partitura ci pensa Franz. Se non ricordo male ci fu anche una litigata di un pomeriggio intero. A me della partitura interessa poco: io voglio l’ebbrezza di sentirmi Zorba, e la possibilità di dire in quella specie di sordina da infilare negli strumenti a fiato: - sala macchine? Pari avanti tutta.
Il direttore della banda manifesta qualche perplessità. Ci regala anche una cassetta intitolata “La banda in discoteca”, realizzata da lui stesso e dai suoi strumentisti. Accettiamo volentieri e ci complimentiamo
I tubi non potranno correre a terra: ci sarà troppa gente e potrebbe diventare pericoloso. Perciò decidiamo di sopraelevare i precorsi di questi, prevedendo delle calate, come degli zampilli d’acqua rovesciati, di tanto in tanto.
L’assessore battezza l’operazione “Fontane sonore”, e la pubblicizza sui giornali locali. L’aspettativa in paese cresce. Senza dubbio ha avuto un discreto coraggio, l’assessore.
Per la progettazione della struttura, chiediamo aiuto ad una amica architetto. Ne salta fuori (mi sembra addirittura di ricordare un plastico) una ellisse, realizzata con gli stessi ponteggi che si usano per la ristrutturazione delle facciate delle case, che avrà come dimensione maggiore un raggio di circa 100/150 metri. Dall’alto – 4/5 metri - i tubi scenderanno a livello del terreno in prossimità della strada che unisce le due piazze; lì l’accesso al pubblico sarà vietato, correranno a terra per un’altra cinquantina di metri, fino al sagrato della chiesa dove troverà posto la banda ed i raccordi per gli strumenti.
Il progetto viene approvato dalla giunta.
I ponteggi verranno montati da operai del comune, ai tubi “sonori” ci pensiamo noi.
Compriamo il materiale e, con un furgone in prestito e la mia macchina, partiamo.
Scopriamo, sull’autostrada che ci troviamo proprio sopra il 54° parallelo.
Arriviamo e scopriamo che l’ellisse di ponteggi, che avrebbe dovuta già essere montata, non c’è. E no ci sono neanche i ponteggi. Aspettiamo un pomeriggio. Alloggiamo nell’unica pensioncina del paese vicino. Mangiamo in un posto dove il cibo è buonissimo. Al massimo ce la godiamo e poi si torna a casa, concludiamo.
Però.
Però.
Mancano quattro giorni alla festa.
Il giorno dopo, nel primo pomeriggio arrivano i camion del comune e scaricano i ponteggi. Verso le 16 arrivano degli operai, che alle 17.00 se ne vanno, giustamente, a casa.
In quell’oretta Martinez ha modo di definirli “operai in stile messicano”. Ci lamentiamo con l’assessore e minacciamo di non fare nulla perché non siamo in grado di montare la struttura, date le lacune evidenti della loro organizzazione.
Alle 21.00 ci ritroviamo in piazza, dopo il buon pasto nella trattoria convenzionata.
Che facciamo?
Martinez credo che fosse il più propenso a rinunciare. Eppure, una volta deciso per il contrario, credo che sia stato il più ardente lavoratore nei giorni successivi.
Seguono ore di lavoro ininterrotto. Bestiale, furioso. Dormire, quasi mai; mangiare si.
Si mangiava bene a Dorno.
Io resto appeso un paio di volte ai ponteggi, più o meno a cinque metri da terra, perché si è sfondato il pavimento di una “camera di miscelazione”, una specie di pisciatoio sopraelevato, orrendo ma necessario, prevista dal progetto.
Martinez ogni tanto si appartava con la sua farmacista. Io mi sarei appartato volentieri con qualche donna, e, penso – ora con molti anni di più – che mi avrebbe trovato travolgente. Ma allora non lo sapevo.
Fa niente -, continuiamo.
Verso le 5 di mattina del giorno previsto per la festa siamo in grado di fare la prima prova. Abbiamo posizionato il primo percorso di tubi e qualche calata.
Qualcuno soffia in uno strumento nella piazzetta della chiesa. Io e Franz avviciniamo l’orecchio ad una delle calate.
Si sente -, urla Franz.
A raccontarcelo ora sembra di ricordare che abbiamo pianto.
Io no so se ho pianto, credo di aver iniziato a mettere in opera il secondo percorso di tubi.

* * *

Poco prima dell’orario previsto la macchina è costruita.
Ampio uso di nastro isolante, ma funziona, ed è bella. Enorme.
Ci concediamo una doccia, sono passati due o tre giorni di lavoro quasi ininterrotti, non ricordo con precisione, ma se li ricordano i miei muscoli.
Arriviamo che la gente già è in piazza. Martinez si avvia verso il sagrato dove coordinerà la banda.
I primi ad accorgersene sono i bambini.
Di cosa? Semplice. Che dicendo “vaffanculo” con la bocca appoggiata ad una delle calate, il messaggio arrivava dal lato opposto della piazza senza che l’autore del messaggio venga identificato.
Da quel momento in avanti è uno sfacelo, un disastro. Incontrollabile, incontenibile, di dimensioni bibliche per un paese della bassa pavese.
Penso che molti abbiano confessato il proprio adulterio a quella macchina.
Tua moglie ti fa le corna con...
Ma vaffanculo tu finocchio di merda...
C’hai la moglie troia...
Eccetera.
E “vaffanculo” di qua; e “pezzo di merda ridammi i soldi che mi hai rubato” di là.
E noi lì in mezzo incapaci di governare la macchina che avevamo progettato e costruito.
Ad un certo punto, la banda che non ha mai sopportato di essere relegata ad un luogo privo di pubblico, capeggiata dal direttore, decide di marciare sulla piazza principale suonando.
Credo l’abbiano fatto. Non ricordo. Ricordo però che qualche giorno dopo i giornali davano la notizia che l’assessore si era dimesso.
Poi il ritorno a casa ed il coniglio in autostrada.
Il materiale, in ogni caso, ci è stato restituito; è ancora nella cantina della mamma di Franz

* * *
Ed ora. Quasi venti anni dopo.
Guardo la foto dei miei figli che sonnecchiano abbracciati nel lettone.
Apro una delle scatole con il materiale dei F.lli Format che Franz ha conservato.
Capisco che “Il profondo e ingenuo sforzo di rifare la vita” era il mio, e dei miei compagni in questa ed altre, innumerevoli, avventure. Ora, per davvero, piango.
I miei figli quasi nulla sanno di ciò che ho fatto prima. Ho abbandonato tutto, come mio solito, quando ho sentito che “bisognava fare così”, come hanno fatto mio padre e mio nonno.
Ma ora.
Ora.
Qualcuno potrebbe pensare che fosse solo goliardìa.
Io non saprei cosa rispondere, se non: - no. Non era così semplice.
Ma ora?
Ora.

“Mi chiederai tu, morto disadorno,
di abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?”

Lasciatemi, per un attimo, essere orgoglioso di ciò che ho fatto. Non per celebrare, ma per riprendermi ciò che ero.

“... e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce. Ma io, con il cuore cosciente

di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?”

Rimbomba ancora, la poesia.
Come al solito non che cosa rispondere. Allora rispondo come uno tagliato col piulot:
- si che posso.
E rieccomi qui.





Mechi Cena
25 febbraio 2004


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